La versione integrale della lettera firmata da Francesco De Lorenzo e Roberta Tatafiore pubblicata dal Foglio del 13/12/06 Al direttore – Per affinità di pensiero e impegno quotidiano nel volontariato abbiamo imparato dai malati di cancro sofferenti, compresi quelli terminali, il valore del sollievo, fisico e spirituale. Del resto: i volontari hanno sempre offerto umana vicinanza ai malati e hanno lottato per far entrare fin dentro agli ospedali le terapie per il controllo del dolore e le
cure palliative. Per lunghi e bui anni, infatti, il dolore è stato considerato un corollario sintomatico della malattia stessa. Oggi all’ordine del giorno c’è la richiesta di malati coscienti che rifiutano di continuare a vivere per interposta macchina e che vogliono affrontare il trapasso nell’oblio. Per risolvere il “caso Welby” si sta tentando la via giudiziaria (che francamente aborriamo) e si sta ricorrendo a pareri di alte assise le quali nulla possono se non, appunto, dare pareri. Siamo invece convinti che a Welby, ai tanti Welby, si debba rispondere con l’unico strumento che abbiamo: la politica. Invitiamo quindi il governo a percorrere il più rapidamente possibile una via legislativa che chiarisca i termini dell’accanimento terapeutico, ma a condizione che tale complessa materia venga ristretta ai soli casi in cui la forzatura sia riscontrabile e condivisibile sul piano legale, clinico, etico. Il concetto di accanimento terapeutico ha infatti confini assai ambigui, tanto è vero che il suo divieto non è codificato dalla legge ma dalla deontologia medica. Tale saggia decisione non deve essere scavalcata da nuove definizioni giuridiche onnicomprensive. Pensiamo pertanto a una normativa che autorizzi i medici a operare per sottrarre alla vita esclusivamente quei malati la cui sopravvivenza dipende dall’essere collegati alle macchine, in una forma chiara e lampante di forzatura terapeutica. Una forzatura che può e deve essere praticata visto che regala ancora vita al malato, alle persone che lo amano e se ne prendono cura. Ma che trova un limite nel consenso del malato stesso. Ci sono precedenti legislativi in grado di supportare la normativa ad hoc che caldeggiamo. La legge sui trapianti del 1975 (varata tra accese polemiche, anche di parte religiosa, ma oggi da tutti condivisa) stabilisce che per autorizzare il prelievo degli organi va accertata l’assenza di respirazione spontanea. Quindi ci si basa sull’elettroencefalogramma piatto per sancire la “morte cerebrale”. La Legge, dunque, ha già decostruito quel circuito naturale vita-morte profondamente messo in crisi dal progresso tecnologico. Inoltre, per il prelievo di organi da soggetti in rianimazione, quella legge prevede l’accertamento di coma profondo da parte di un collegio medico che riscontri (tra l’altro) “atonia muscolare, ariflessia tendinea, indifferenza dei riflessi plantari”, manifestazioni morbose che si riscontrano anche in chi è tenuto in vita artificialmente. Naturalmente il vivente per interposta macchina è affatto diverso dall’appena deceduto su cui praticare un espianto. Il malato alla Welby può pensare, pregare, decidere. E questo rafforza la sua facoltà di scegliere quando e come sottrarsi alla forzatura terapeutica, a patto naturalmente che la sua volontà sia espressa formalmente e senza equivoci. Una legge pietosa e rigorosa, subito, è quello che auspichiamo.
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