Così il corpo si difende da sé

di Gianna Milano

Come fanno le cellule tumorali a sfuggire ai controlli rigorosi del sistema immunitario? Quali trucchi usano per eludere la stretta sorveglianza di sentinelle di solito così vigili nell'individuare gli invasori? Perché l'organismo non è capace di riconoscerle come estranee e di aggredirle? Da oltre due decenni gli immunologi tentano di dare una risposta a queste domande. "Se riusciremo a capire i segreti di quel misterioso rapporto fra l'organismo e le cellule cancerose, avremo aperto una nuova strada per curare il tumore, l'immunoterapia": così scriveva Steven Rosenberg, pioniere di quelle strategie che sfruttano le cellule immunitarie per combattere il cancro, nel libro "La cellula trasformata". Era il 1993. Rosenberg, che lavora sempre al National Cancer Institute a Bethesda, Usa, non ha mai smesso di sperimentare. E dopo tanti tentativi con risultati spesso fallimentari, ora annuncia su Science di aver trovato un nuovo stratagemma per rendere le cellule immunitarie capaci di contrastare il tumore e farlo regredire.
Nei precedenti tentativi di Rosenberg i linfociti T, cellule specifiche capaci di infiltrare il tumore, una volta isolati, selezionati e modificati per aumentarne l'efficacia, quando erano reinfusi nel paziente si diradavano o scomparivano e i risultati erano scarsi. Non così con il nuovo protocollo. A 13 pazienti con melanoma in fase avanzata, tumore particolarmente aggressivo, i ricercatori hanno prelevato campioni del cancro e hanno isolato i linfociti T che lo avevano infiltrato. Lo scopo: scegliere i due o tre tipi di linfociti più efficaci nel riconoscere e distruggere le cellule cancerose, metterli in coltura, farli moltiplicare e reinfonderli assieme ad un fattore di crescita, l'interleuchina-2, per stimolarne lo sviluppo.
Non è tutto. "Oltre a selezionare in maniera raffinata i linfociti, ha aggiunto qualcosa di innovativo rispetto al passato, cioè ha sottoposto i pazienti a una chemioterapia, la stessa utilizzata nei trapianti di midollo allogenico. Così ha fatto piazza pulita del vecchio sistema immunitario e ha creato lo spazio ai nuovi linfociti iniettati, permettendo loro di moltiplicarsi e di agire" spiega Massimo Gianni dell'Istituto dei tumori di Milano e docente di oncologia medica. "E, cosa straordinaria rispetto ai precedenti tentativi, i linfociti trasferiti nei pazienti sono rimasti attivi abbastanza a lungo continuando a funzionare. In due casi i loro livelli sono restati alti a distanza di quattro mesi" aggiunge Alberto Mantovani, immunologo del Mario Negri e docente di patologia generale all'università di Milano.


I risultati? Su 13 pazienti che si sono sottoposti volontariamente al test clinico, tutti con un'aspettativa di vita di pochi mesi, 10 sono vivi dopo 6-24 mesi dal trattamento. In 6 il tumore è regredito del 50% e in altri 4 vi è stata una risposta parziale, con riduzione significativa di una o più masse tumorali. Sono state raggiunte metastasi nascoste nei linfonodi o sepolte in polmoni e fegato. Una ragazza di 18 anni, dopo due anni dal trattamento, resta libera da malattia. Ma non ha funzionato così in tutti. "Non sappiamo come mai. Ora dobbiamo capire perché e monitorizzare gli effetti collaterali" ha detto Rosenberg. "I linfociti trasferiti, proprio perché persistono, determinano danni collaterali: colpiscono non solo le cellule cancerose ma anche quelle normali che presentano lo stesso antigene, ossia la stessa proteina bersaglio, sul loro involucro. Come le cellule della cute, melanociti, e della retina" precisa Giorgio Parmiani, oncologo dell'Istituto dei tumori di Milano e responsabile del programma di studio dei vaccini contro il melanoma.
Anche se incognite sono tante ed è difficile predire ciò che avverrà nel lungo termine e su campioni più numerosi di pazienti, annota su Science l'immunologo James Mulè, i risultati ottenuti da Rosenberg riaccendono le speranze nell'immunoterapia contro il cancro. "Non è una nuova cura, ma tante. Anzi, un modo diverso di pensare. Un cambiamento nella filosofia terapeutica reso possibile dalla conoscenza sempre maggiore dei segreti del sistema immunitario e dai progressi compiuti dalla biologia molecolare" osserva Parmiani. I primi passi dell'immunoterapia, detta adottiva o passiva, con linfociti T prelevati ai malati, risale agli anni 80. e pietra miliare per intraprendere questa strada fu l'isolamento, quasi per caso, nel 1976, dell'interleuchina-2, proteina naturale che favorisce il moltiplicarsi di quei linfociti così importanti nel sistema immunitario.
Era il 1984 quando Rosenberg utilizzò per la prima volta su una paziente con melanoma una terapia con alte dosi di Lak (Lymphokine activated killer), ossia linfociti trasformati in cellule in grado di distruggere quelle tumorali. Poi "riuscimmo a isolare e coltivare quei linfociti che hanno la capacità di infiltrare il tumore, i Til (Tumor infiltrating lymphocites). E, con le tecniche del Dna ricombinante, a inserire in queste cellule, usando come vettore un retrovirus inattivato, un gene che codifica per un enzima tossico, il Tnf, o fattore di necrosi tumorale, che trasforma in killer le cellule cancerose" racconta nel suo libro.
Oggi numerosi sono gli studi clinici in corso con immunoterapia passiva con linfociti T che presentano sulla loro superficie recettori specifici per gli antigeni della cellula tumorale e con anticorpi monoclonali. Un esempio è l'Herceptin, che nel cancro al seno blocca i recettori per la proteina Her 2, espressa in eccesso sulla superficie delle cellule tumorali, inibendone la proliferazione. Da tempo è stata imboccata l'altra strada dell'immunoterapia, quella "attiva", del vaccino. Ora si dice che le cellule tumorali sono portatrici di antigeni che il sistema immunitario può individuare e attaccare. Non solo melanoma, linfoma, carcinoma renale, anche altri tumori possono esprimere sulla superficie questi antigeni. "Identificati quelli giusti, li si può inoculare per suscitare una risposta immunitaria" dice Parmiani, che nei melanomi ha ottenuto con il vaccino una regressione completa o parziale nel 15-30% dei pazienti.
Un'altra forma di immunoterapia attiva, in fase di sperimentazione, utilizza cellule dendritiche. "Vengono prelevate al paziente stesso e reinfuse dopo essere state ingegnerizzate con proteine derivate dal tumore. Sono cellule che presentano in maniera molto efficace l'antigene" chiarisce Marco Bregni, ematologo al San Raffaele di Milano, dove partirà tra breve uno studio clinico controllato per il melanoma. Le si sta sperimentando anche su linfomi e tumori renali, ma è presto per dire se ci sono risultati. "A fronte di una ricerca che ha fornito molte nuove idee, gli studi clinici rappresentano un collo di bottiglia" puntualizza Parmiani.
Per esempio, finora sono un centinaio gli antigeni di cui si conosce la composizione genetica e proteica. "Ma sono solo una quindicina quelli usati. Non sappiamo ancora quale sarà il vaccino ottimale". In prospettiva? Si può immaginare un vaccino individualizzato, con proteine estratte dal singolo paziente e usate solo per lui. "O, addirittura, vaccinazioni per prevenire il cancro in individui a rischio. Lo si fa già contro l'epatite B per evitare il cancro al fegato, o contro il papillomavirus per prevenire quello alla cervice. Ma sono pochi i tumori causati da virus" avverte Parmiani.

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