L’esame del PSA non può essere utilizzato in maniera indiscriminata come strumento di screening del tumore della prostata. La sensibilità del test varia dal 70 all’80%, questo significa che il 20-30% delle neoplasie non viene individuato quando il PSA viene utilizzato come unico mezzo diagnostico. Va eseguito solo quando è necessario, cioè dopo i 50 anni, se vi è familiarità diretta per questo tumore e quando si soffre di disturbi urinari.

L’importanza di un uso “mirato” del PSA è stata sottolineata dalla XIX Conferenza Nazionale dell’AIOM, dedicata ai tumori urologici. “Non è stabilita una soglia standard in questo esame che indichi con certezza la presenza di un carcinoma – sottolinea il presidente Carmelo Iacono - e valori elevati possono essere dovuti a un’infiammazione o a un’infezione. In questi casi sono necessari ulteriori accertamenti, in particolare attraverso la biopsia, per arrivare a una diagnosi più precisa. Al tradizionale test di partenza si affiancano oggi due nuovi marcatori (PHI e PCA3) che consentono di ottenere risultati più specifici e quindi di maggiore, anche se non totale, affidabilità. Non vi sono evidenze scientifiche che stabiliscano l’opportunità di utilizzare lo screening in maniera diffusa sulla popolazione generale, tendenza che aumenterebbe il rischio di sovradiagnosi ed uno scarso vantaggio in termini di riduzione di mortalità. È importante, anche per la sostenibilità del sistema, che venga operato un bilancio tra costi e benefici”. “Vogliamo trattare il tumore della prostata seguendo il modello organizzativo ormai consolidato per il cancro del seno con le ‘Breast Unit’ – spiega Luigi Dogliotti, professore di oncologia medica dell’Università di Torino, A.O.U. San Luigi di Orbassano (TO), e presidente della XIX Conferenza Nazionale AIOM -. La creazione di ‘Prostate Unit’, in cui lavorino in stretta sinergia urologi, oncologi, radioterapisti e anatomopatologi, consentirebbe infatti di ridurre ulteriormente la mortalità di questa neoplasia”.

I due nuovi marcatori che si affiancano al PSA sono l’indice PHI (Prostate Health Index) e il PCA3. “Il primo - afferma il prof. Iacono - si effettua con un semplice prelievo del sangue e consente, contrariamente al passato, di misurare il PSA in tutte le sue frazioni: PSA totale, PSA libero più una nuova sottounità ([-2]proPSA), individuata di recente. Un’equazione aritmetica di tutte queste componenti permette di ottenere un valore, l’indice di salute prostatica, che, se inferiore a 28, indica un minore rischio di presenza tumorale. Il marcatore PCA3 è un antigene tumorale, rilevabile nelle urine dopo che il medico, nel corso della visita, ha effettuato un massaggio prostatico per via rettale. Entrambi i test non sostituiscono il PSA, ma si affiancano a questo per offrire al medico un ventaglio più ampio di elementi di valutazione”. I valori soglia del PSA attualmente consigliati sono convenzionali e hanno un basso valore predittivo, sia positivo che negativo. È altrettanto vero che l’adozione di valori più bassi tenderebbe ad aumentare i costi, la morbilità, il numero di biopsie e di neoplasie non aggressive sovradiagnosticate. “Sono stati proposti numerosi metodi per migliorare la specificità del test – continua il prof. Dogliotti -, in modo da ridurre le biopsie non necessarie. Uno è rappresentato dall’aggiustamento del valore soglia per fascia di età: l’impiego di indicatori più elevati per pazienti più anziani consente infatti di diminuire le biopsie diagnostiche. Un altro strumento è rappresentato dalla cosiddetta PSA density, che esprime il rapporto tra PSA circolante e dimensioni della ghiandola prostatica misurate con l’ecografia. L’interpretazione di questa relazione è tuttavia condizionata da diverse variabili che ne limitano l’impiego”.

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